La questione del legame tra il calcio professionistico e il rischio di demenza ha generato ampie discussioni negli ultimi anni. Un nuovo studio condotto dall’Università di Glasgow ha messo in luce risultati sorprendenti rispetto a questa tematica, sfidando alcune convinzioni consolidate. I ricercatori hanno scoperto che comuni fattori di rischio legati allo stile di vita e alla salute non possono giustificare il rischio maggiore di demenza tra gli ex calciatori. Le scoperte implicano una necessità urgente di esaminare ulteriormente le cause specifiche, in particolare in relazione agli impatti ripetuti sulla testa.
Negli anni, il dibattito sul rischio di demenza per i calciatori professionisti ha suscitato molte preoccupazioni. Tuttavia, la recente ricerca dell’Università di Glasgow getta nuova luce su questo argomento. Gli studi precedenti indicavano che i calciatori avessero un rischio maggiore di sviluppare malattie neurodegenerative, ma i dati raccolti nella nuova ricerca hanno rivelato che i fattori di rischio legati alla salute generale e allo stile di vita, come il fumo o l’obesità, erano simili o addirittura inferiori rispetto alla popolazione generale. Questo scoprimento sorprendente ci porta a considerare altre motivazioni potenziali che potrebbero contribuire a questo fenomeno preoccupante. È evidente che il focus deve invece spostarsi sulle esperienze fisiche, in particolare sugli impatto ripetuti che i calciatori subiscono durante le partite.
In questo studio pubblicato su Jama Network Open, gli scienziati hanno esaminato una vasta gamma di dati, comprendendo 11.984 ex calciatori e 35.952 controlli corrispondenti in Scozia. L’analisi includeva variabili come il fumo, la depressione, le malattie correlate all’alcol e altre condizioni di salute significative. Attraverso questo studio, i risultati hanno dimostrato che la prevalenza di problemi di salute e condizioni legate allo stile di vita fra i calciatori non giustificava il loro elevato rischio di demenza. È un’evidenza che, stranamente, sfida le convenzioni preesistenti su cosa possa causare un aumento del rischio di demenza. Questo dato sottolinea l’importanza di guardare oltre le statistiche tradizionali e le conoscenze comuni, avvalendosi di nuovi approcci per identificare le cause reali dell’aumento del rischio.
Gli esperti dell’Università di Glasgow, tra cui il professor Willie Stewart che ha guidato lo studio, hanno evidenziato una questione cruciale: la necessità di migliorare le misure di gestione degli infortuni alla testa e, di conseguenza, ridurre il numero di colpi alla testa nel calcio professionistico. Questo è diventato particolarmente prioritario dato che il rischio di demenza potrebbe essere legato in modo diretto agli impatti ripetuti e alle lesioni cerebrali traumatiche. Prima di questo studio, ricerche del 2019 avevano dimostrato che i calciatori avevano una mortalità 3,5 volte superiore per malattie neurodegenerative. Ma ora, la comunità sportiva è chiamata a rispondere a queste scoperte con interventi adeguati mirati a migliorare la sicurezza degli atleti. Non si tratta solo di fornire informazioni su stili di vita sani, ma di rivalutare le pratiche all’interno dello sport ad alto contatto.
La ricerca sembra quindi suggerire che l’attenzione deve concentrarsi su come proteggere i giocatori dai rischi fisici piuttosto che sui fattori di rischio legati al loro stile di vita. Con queste informazioni, le federazioni calcistiche e le associazioni sportive ora hanno il compito di studiare e attuare modi per ridurre il rischio di lesioni cerebrali nei loro atleti. È un passaggio necessario per garantire non solo la protezione dei calciatori attivi ma anche per salvaguardare la salute a lungo termine di coloro che abbiano dedicato la loro vita a questo sport.