L’atmosfera che avvolge la costa flegrea, nell’area occidentale di Napoli, è ricca di storia e trasformazione. Una matina qualunque, il suono di una sirena rompe la tranquillità, evocando ricordi di un passato industriale. Giovanni Capasso, presidente del Circolo Ilva, ci guida attraverso i cambiamenti che hanno segnato questa comunità e l’importanza di conservare la memoria di un’epoca che ha influenzato il destino dei suoi abitanti. La sua narrazione si intreccia con il desiderio di rivitalizzare un’area che ha visto giorni di grande attività e ingegneria.
I ventottomila abitanti di Bagnoli attendono con trepidazione la tanto attesa bonifica e riqualificazione delle aree una volta occupate dalle grandi acque dell’acciaio. La trasformazione è attesa come un momento di rinascita, che porterà alla creazione di un quartiere dove le risorse naturali possano risplendere. Tuttavia, il rischio di dimenticare quel patrimonio collettivo è concreto. Per questo motivo, Giovanni Capasso ha intrapreso un’importante missione: salvare i pezzi di storia da un oblio imminente. Negli anni Novanta, mentre i capannoni venivano smantellati, Capasso ha iniziato a raccogliere una varietà di oggetti, dalle tute dei lavoratori ai componenti tecnologici, conservandoli con cura. «Oggi sono in un’area del circolo dove speriamo un giorno di allestire un museo», ha affermato, speranzoso.
L’idea di un museo non è solo un palcoscenico per esibire pezzi di ferro e acciaio, ma rappresenta anche un luogo di incontro per le generazioni future, un posto dove le scuole possono venire a conoscere la propria storia. Ricordare il passato aiuterà a costruire un futuro consapevole, dove il senso di comunità possa rimanere ben radicato. La memoria è l’ancora che tiene fermi i legami tra le persone, e senza di essa, tutto può svanire. Così, mentre il processo di riqualificazione sta per iniziare, la sfida è mantenere vivi i ricordi e i valori di un’epoca che ha segnato profondamente l’identità di Bagnoli e dei suoi abitanti.
Un lavoro difficile e rischioso
Gli ex dipendenti dell’acciaieria spesso riportano le cicatrici fisiche e mentali di un passato segnato da rischi e fatica. Vittorio Attanasio, che nel circolo ricopre il ruolo di past president, racconta con malinconia i giorni in cui lavorava nella cocheria. “Indossavamo camici ignifughi di amianto, senza sapere quanto fosse pericoloso”, rivela, riflettendo su attimi di tensione vissuti nel cuore dell’impianto. Gli incidenti erano all’ordine del giorno, e la creatività non sempre riusciva ad evitare il peggio. Oltre a raccontare la sua esperienza, Vittorio condivide la vivida memoria di un compagno di lavoro che rischiò di perdere la vita a causa delle cattive condizioni.
I racconti di Attanasio conquistano l’attenzione, facendo emergere una storia di collettività e coraggio. La lotta quotidiana per la sicurezza era una costante, e l’esperienza di vivere tra alti forni e fumi tossici ha lasciato un’impronta indelebile. Le parole di Vittorio risuonano come un monito per le generazioni future, un avviso del valore di una vita vissuta, lontano dagli spazi sicuri e confortevoli. Nella memoria rimangono non solo storie di sofferenza, ma anche momenti di gioia, amicizia e solidarietà, che hanno forgiato un’identità di resistenza.
La fabbrica che ispira libri, film e opere d’arte
L’eredità dell’Ilva-Italsider è ben più della mera produzione di acciaio. È un capitolo di storie umane che ha segnato la crescita di intere famiglie e comunità. All’interno e all’esterno dei suoi muri, si intrecciano racconti di speranza, sacrificio e creatività. Le variabili che compongono il passato di questo stabilimento sono tante, e ancora oggi si sentono gli echi di quei giorni. Giovanni Capasso ricorda con orgoglio il romanzo “La dismissione” di Ermanno Rea, un’opera che racconta storie di operai e delle loro lotte quotidiane. Rea visse per sei mesi all’interno dell’archivio dell’Ilva, catturando l’essenza di un’epoca, un lavoro giornalistico che a distanza di anni continua a ispirare.
Ma l’Ilva ha ispirato anche artisti, come dimostra l’opera di Giancarlo Neri, che ha trasformato i rifiuti industriali in arte. Il regista Ugo Capolupo ha realizzato un corto che narra le vicende di Capasso, colui che ha salvato la memoria di un tempo che scompare. Il corto ha riscosso successi e persino complimenti da Nanni Moretti, dimostrando che le storie di queste persone hanno il potere di toccare le corde più profonde dell’animo umano. L’area che un tempo era sinonimo di fatica e grigio ha il potenziale per diventare un polo turistico di richiamo, riscoprendo il legame con il mare, unendo passato e futuro, tradizione e innovazione.