La recente conferenza COP29 ha rappresentato un momento cruciale nella lotta contro il cambiamento climatico, avvicinando il mondo a un accordo che sembrava sfuggente. Tra tensioni, manifestazioni di disaccordo e importanti trattative, è emersa una soluzione che, sebbene non perfetta, ha riacceso la speranza per le politiche ambientali. Scopriamo insieme cosa è successo durante queste intense giornate di discussione e quali saranno i passi successivi.
È stata un’attesa quasi surreale, le lancette scorrevano mentre la plenaria di COP29 navigava tra momenti di tensione e attese di rivelazioni. Ma alle 2 e 38 di notte, il presidente della conferenza Mukhtar Babayev ha annunciato che la conferenza era salva. I presenti si sono alzati in un applauso fragoroso, nonostante le dure critiche espresse dall’India riguardo ai metodi di negoziazione. Quella che sembrava una catastrofe imminente si è trasformata in un’opportunità di compromesso. I paesi meno sviluppati e le piccole isole, che nel pomeriggio avevano manifestato il loro malcontento abbandonando una riunione, hanno calcolato i rischi e hanno deciso di rimanere, accettando le condizioni proposte per quanto riguardava la finanza climatica. Il piano non cambiava rispetto a quanto già esistente: l’obiettivo rimaneva reperire almeno 1,3 trilioni di dollari all’anno entro il 2035 per finanziare le azioni climatiche nei paesi in via di sviluppo e fissare un traguardo intermedio di 300 miliardi di dollari all’anno entro il 2030, affidando ai paesi sviluppati il compito di guidare questo cambiamento.
In aggiunta, l’accordo è stato arricchito da modifiche tecniche significative. Tra queste brillava la “roadmap da Baku a Belem”, finalizzata a incrementare i finanziamenti per il clima, e un aumento considerevole delle risorse per i fondi di adattamento, triplicandone la disponibilità. Inoltre, paesi emergenti e ricchi di risorse, come i petrostat del Golfo e la Cina, sono stati invitati a fornire contributi volontari. Questa approvazione ha rappresentato un notevole passo avanti, come sottolineato dal ministro dell’Ambiente italiano Gilberto Pichetto Fratin, che ha evidenziato la strategia italiana per una finanza climatica più giusta e riflessiva rispetto ai nuovi equilibri globali.
Ma arrivare a questo punto non è stata una passeggiata. Durante le discussioni serali, si è proceduto a ratificare solo quegli accordi già concordati, come le norme per il mercato internazionale delle emissioni di carbonio, un tema atteso da nove lunghi anni. Alcuni temi tecnici, tuttavia, sono stati rinviati alla prossima riunione di Bonn, programmata per giugno 2025. La presidenza azera, di fronte a tensioni più che palpabili, ha deciso di interrompere temporaneamente i lavori per riprendere le consultazioni sulla finanza climatica. Al centro di questo incontro vi era la questione delle nuove regole in materia di finanziamenti, fondamentali per garantire ai paesi in via di sviluppo le risorse necessarie a compensare l’inquinamento, causato storicamente dai paesi del Nord del mondo. La grande incognita rimaneva chi sarebbe stato disposto a pagare e quanto.
Le nazioni sviluppate si sono dimostrate pronte a contribuire, anche se con dei limiti e sensibilità diverse. Al contempo, chiedevano che anche nazioni che si definivano “in via di sviluppo”, ma che avevano ormai accumulato notevoli risorse come i paesi del Golfo o la Cina, contribuissero in modo significativo. La risposta di queste ultime era limitata a finanziamenti volontari, creando un dualismo che ha reso la situazione ancora più complicata. In questo clima di difficoltà, la presidente azera ha presentato sue bozze sulla finanza che non sono state affatto soddisfacenti, invitando a “mobilitare” 1,3 trilioni e stabilendo una soglia di 250 miliardi di euro da destinare ai paesi sviluppati entro il 2035.
Il pomeriggio è coinciso con un momento di svolta che ha visto la terza bozza di accordo alzare il contributo previsto dai paesi sviluppati da 250 a ben 300 miliardi. Tuttavia, a questo punto, la situazione è diventata di difficile gestione, e i paesi in via di sviluppo, particolarmente insoddisfatti, hanno incominciato a esprimere il loro disappunto. Rappresentando il gruppo G77 composto da 134 nazioni in via di sviluppo, l’Uganda ha sollecitato un incremento dei finanziamenti a un minimo di 500 milioni. A quel punto, mentre il delegato dell’Arabia Saudita, noto per il suo attivismo a favore delle fonti fossili, interveniva, le delegazioni delle nazioni insulari e dei 45 paesi meno sviluppati hanno scelto di abbandonare la riunione, in segno di protesta. Un gesto di forte impatto, ma non un rifiuto definitivo del processo negoziale, come ha sottolineato Jiwoh Emmanuel Abdulahi, ministro dell’Ambiente della Sierra Leone, evidenziando che il gruppo rimaneva impegnato nel dialogo per ottenere una risoluzione equa.
Nel frattempo, il tempo ha paradossalmente lavorato a favore del dialogo. Si prevede una ripresa dei negoziati sui contributi nazionali, che dovranno essere presentati entro febbraio, affinché ci si possa presentare alla COP30 con un pacchetto credibile per ridurre le emissioni. Magari, finalmente, si potrà raggiungere quell’obiettivo che per oltre 29 anni è sembrato un miraggio, ma che è essenziale per la salvezza del nostro pianeta.